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LA PREPARAZIONE DELLA «GINESTRA»: «LE SEPOLCRALI»

Anche se contrari ad una schematizzazione eccessiva di periodi e sottoperiodi nello svolgimento di una poesia e avvertiti dei pericoli che ne derivano di arbitrarietà e di forzatura[1], nella linea di questa ricerca, dopo Aspasia si apre alla nostra attenzione una fase in cui il Leopardi in vari componimenti orienta le sue esperienze artistiche verso un ulteriore tentativo della nuova poetica unitaria ed eroica a realizzare una musica integralmente espressiva della sua filosofia «disperata ma vera» come convinzione assoluta e proposta del suo animo convinto a messaggio polemico ed evangelico. In questa preparazione trovano il loro posto anche le due canzoni sepolcrali.

Questi due canti, composti forse nell’inverno ’34-35[2] sono uniti da un argomento simile e da una simile struttura slanciata, esile, ben diversamente energica da quella della canzone Alla sua donna, ma echeggiante quelle misure eleganti, quel fare sibillino e aristocratico, fra dolente ed ironico che era tornato con funzione del tutto nuova in Amore e Morte, in Aspasia. Un’aria comune di eleganza, pensosa, assorta, con venature di un sentimentalismo declamato che richiama stranamente tentativi romantici non realizzati nel periodo giovanile (le due canzoni Per donna inferma, Nella morte di una donna fatta trucidare ecc.) e che oltre i vari «ahi!» preme nei ripensamenti esclamativi:

Misterio eterno dell’esser nostro

e si unisce a un tono quasi liturgico già notato dal Levi[3] in precisi riferimenti biblici.

Elementi che confluiscono in una musica attenta, ma non sempre capace di realizzare l’intima coerenza della nuova posizione spirituale.

Un’aria quasi dubbiosa, folta di alto stupore incombe su queste canzoni anche se dentro si muove una decisione e una coscienza sicura della «illaudabil meraviglia», della indifferenza della natura. E quasi si potrebbe pensare che come Sabato e Quiete rispetto ai piú grandi idilli sono alti corollari, cosí le due canzoni rispetto ad Aspasia e Amore e Morte abbiano simile funzione riprendendone il problema della bellezza, della sua caducità, della sua origine di misera materia, e affacciando d’altra parte quelle conseguenze che già vivono nel contrasto patetico fra il mondo appassionato degli uomini pieni di illusioni divine e la natura che appare solo nel suo aspetto neroniano. Tutto ciò nel suo aspetto piú nuovo (e in questo senso sono utilizzate forme precedenti con le naturali difficoltà di piena coerenza) sarà chiarito nella Ginestra di cui manca qui il vigore apostolico.

È sí un Leopardi severo, fermo, ma l’impegno solito di questa tensione è limitato da un certo distacco di stilizzamento e non da quella «umiltà» in cui il Levi poteva scoprire piamente una lontana alba di fede e che realmente esiste come piena coscienza della propria fragilità umana, come persuasione del nulla della situazione umana o, per stare in termini piú vicini a questa estrema posizione romantica, del vivere per la morte.

Nella prima sepolcrale la calma dolorosa mista di stupore e di contenuta violenza, indicata comune alle due canzoni, è piú sollevata da una energia sentimentale che scende fino a sentimentalismo, ma che è capace di investire i quesiti fermi e precisi del problema leopardiano con movimenti carichi ed incalzanti in cui la tipica ispirazione personale riesce a farsi luce e a dirigere coerentemente la costruzione del canto. Naturalmente la stessa ispirazione di riverbero (bassorilievo antico) mentre allontana l’intonazione nostalgica, che in simile situazione veniva dalle creature del ricordo negli idilli, e colloca la poesia su di uno sfondo assoluto, porta ad una costruzione alleggerita, di luce interna, di calore tutto spirituale a cui per converso viene ad aggiungersi quel tanto di eloquenza sentimentale (e il nucleo è la morte che tronca ogni legame affettivo) che spinge tanta signorilità a tensione.

Signorilità è infatti la parola che ben misura questo fare energico e cosciente, non adagiato e cantato, ma eletto, sollevato, che può decadere in raffinatissima eloquenza,

(questo se all’intelletto

appar felice, invade

d’alta pietade ai piú costanti il petto),

in musica squisita, ma piú attenta alle sue misure esteriori che non al suo legame interno, e che accompagna le forme stilistiche piú solite di questi nuovi canti con un’accentuazione di eleganza fra attonita e riflessa, estremamente misurata anche negli impeti piú sentimentali.

Anche qui ripetizioni per rafforzamento, ricerca di un colore tutto interno e perfino un po’ sbiadito nel suo carattere antipittoresco, anche qui i paragoni sottomessi alla piú forte musica derivata dal centro ispirativo:

come vapore in nuvoletta accolto

sotto forme fugaci all’orizzonte,

dileguarsi cosí quasi non sorta.

Ma in complesso l’urgenza è minore e meno unitaria la forza che pure non manca. E quasi pare che un’intelligenza altissima si faccia a volte guida di questa stessa forza creatrice in una ricerca tecnica conscia di una esperienza che supera il singolo canto.

Nella prima stanza le mosse interrogative, senza ansia nostalgica sostituita da una attenzione concessa non a «quella» persona, ma ad una figura che vuol essere senz’altro la bellezza umana e caduca, hanno una loro sicurezza superiore non di domande retoriche ma di problema in atto, poeticamente in atto, che si precisa esageratamente nella fitta trama contrappuntata della seconda strofa vicina ad una preziosa prevalenza di puro stile. Deciso è invece il ritmo assunto nella terza strofa con mosse brevi, spezzate a metà verso, che fanno pensare ad un ritorno piú tecnicistico del procedimento di A se stesso:

Al cominciar del giorno

l’ultimo istante.

Ed il risultato è notevolissimo sulla via di una poesia sicura e decisa sia come suono sia come suggestione di immagine sentimentale: «non tornerai», «per sempre», «sotterra», chiusa com’è dal magnifico verso 24:

ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno,

nato come dopo una sospensione energica e fluito insieme leggero e perentorio. Gli ultimi due versi risentono di questa leggerezza non cantata e si aprono su di una esitazione stilizzata («forse beata sei»), si svolgono con membri interrotti, di uguali misure, pausati e risolti nel «sospiro» finale che porta un richiamo fra petrarchesco e Vita Nova. È il motivo della bellezza giovanile che, penetrato su questa strada di vicinanze di eleganza spirituale, rievoca nella quarta strofa quasi un ricordo di temi idillici divenuti però piú grigi e solenni, incupiti e risoluti e non piú teneramente intonati:

e molto

prima che incontro alla festosa fronte

i lugubri suoi lampi il ver baleni.

Toni cupi e solenni e insieme eleganti e sicuri che trovano una luce tutta spirituale nei bellissimi versi 39-40:

e cangiar con gli oscuri

silenzi de la tomba i dí futuri.

Non il silenzio verde carducciano, non l’aria celestina del Pascoli, non il frutto di un’audacia impressionistica, ma l’attenta ricerca di un tono in cui l’immagine serve alla musica senza prepotenza di colore.

Ma la musica folta di rime al mezzo (versi 39, 43) e di lontane assonanze riesce però raramente ad essere completamente intima al motivo sentimentale che la nutre e sembra a volte divenire esercizio stilistico in vista di nuove esperienze, procedere al di là del legame piú interno: come avviene nella quinta stanza tutta a contrappunto come la seconda, come nella sesta che alterna mosse felici con declamazioni sentimentali, con cadenze fiacche come la chiusa. Cosí la chiusa stilizzata del canto, preparata ad effetto di contrasto con le misure che la precedono immediatamente, è un capolavoro stilistico, ma non ha una piena vita poetica malgrado la forza di convinzione che vibra sempre al fondo di questi nuovi canti. E tutta l’ultima lunga stanza interessa soprattutto come preparazione, come prova di quelle strofe allungate e sorrette da posizioni forti, da rime al mezzo baciate con il verso precedente che troveranno la loro vera ragione nella Ginestra in cui d’altra parte l’ispirazione piú urgente abolirà le soluzioni piú preziose che qui paiono per l’ultima volta utilizzare gli insegnamenti di Alla sua donna o di Amore e Morte.

La seconda sepolcrale mostra anche piú chiaramente della prima i limiti di una concezione eccessivamente eletta e attenta a misurare, pure in una presenza di stupore e di pietà sentimentale, la musica, per giungere ad una squisitezza, ad una maestria tecnica che molti critici fermi al «discettare», al «raziocinare» e cioè alla natura dello schema deducibile razionalmente, non suppongono in un Leopardi che ritengono in decadenza, ormai isterilito e privo di ispirazione.

Non importa molto osservare che qui il Leopardi è in posizione piú di osservatore che di protagonista e che la didascalia iniziale come quella piú complessa della prima canzone sarebbe già spia di una concezione fredda e sofistica, ché anzi proprio il motivo del ritratto di una bella donna dà inizio alla poesia con versi alti in cui la misura notata si incontra con una forza di assolutezza, con un impeto contenuto che altrove non saranno cosí unite. L’attacco solenne e perentorio come un riepilogo severo («Tal fosti»), poi le denominazioni di tempo e di luogo e le parole tetre: «polve e scheletro» «ossa e fango» intercalate dal risoluto «sei», vengono sviluppate come tesi iniziale dai due mirabili versi 3-4: il primo fatto di parole lunghe e decisive (immobilmente collocato invano), il secondo ampio e fantastico in una prospettiva tutta ideale, in un ideale trionfo della morte. Il contrappunto di parole piú larghe e di parole piú tassative sensibilizza il ritmo che si ferma a metà verso (al verso settimo), con una parola florida e accentata sulla cui pausa si muove, con un leggero ricordo di idillio fatto piú solenne, il nuovo movimento. «Quel dolce sguardo, quel labbro...», nutriti di particolari simili a quelli della presentazione di Aspasia, ma qui piú alleggeriti, resi assoluti nel loro snodarsi di membri battuti appena alla fine, sino a che l’ultimo membro chiude con maggiore ampiezza e con il taglio gelido del passato remoto: «furo alcun tempo». Tornano le battute del verso 2 e la chiusa del verso stesso al mezzo: «or fango / ed ossa sei» su cui in realtà si chiuderebbe la strofa se il moto musicale non chiedesse un completamento certo piú necessario che bello.

L’eleganza continua nella strofa seconda, ma si fa piú esterna in un contrasto troppo costruito oltre i limiti dell’«ars» concreta, di parole rudi («sozzo, abominoso, abbietto») che fanno ripensare ai tentativi romantici delle canzoni giovanili ripudiate (Per donna uccisa ecc.) e di parole auliche ed estatiche che riescono a realizzarsi solo nella mossa centrale:

quale splendor vibrato

da natura immortal su queste arene,

di sovrumani fati,

di fortunati regni e d’aurei mondi...

Ed eleganza squisita caratterizza la terza strofa che rimane però troppo una variazione rischiosa di ornamentale leggerezza:

quasi come a diporto

ardito nuotator per l’Oceano...

Come l’eccesso di cura ritmica si rivela nel finale pensoso, ma smorzato, troppo puntuato di «or come», di «se», di distinzioni precise e sottolineate.


1 Valga nel suo riferimento estremo al romanzo biografico l’avvertimento crociano che in verità non tocca le nostre intenzioni di storia della poetica: «La conseguenza dell’interpretazione biografica è di turbare la chiarezza del criterio della poesia e di sostituire alla storia effettiva di questa una storia piú o meno arbitraria del suo svolgimento ecc.» (Quaderni della Critica, I, p. 37).

2 Si veda la lettera al padre del 27 novembre 1834, quella alla Tommasini del 2 maggio 1835 («e quest’inverno ho anche potuto un poco leggere, pensare e scrivere»), quella al De Sinner del 3 ottobre 1835 («nell’inverno passato potei leggere, comporre e scrivere qualche cosa»).

3 Nelle note ho indicato alcuni riscontri di testi o sacri o pii, che per la loro relativa frequenza non sembrano casuali, né privi di significato rispetto ai gusti e alle inclinazioni del poeta maturo» (G. A. Levi, Canti. Firenze 1930, p. 247).